Quarta
recensione librosa da parte di Sam.
Stavolta,
visto che i miei collaboratori si sono lamentati dei miei bellissimi 10, vi
presento uno dei rari libri che hanno meritato un’insufficienza: Quanta stella
c’è nel cielo, di Edith Bruck.
Titolo: Quanta
stella c’è nel cielo
Titolo
originale: Pare proprio che sia ‘Quanta stella c’è nel cielo’
Autore: Edith Bruck
Pagine: 198
Prezzo: € 9,90
Ed. Garzanti
Autore: Edith Bruck
Pagine: 198
Prezzo: € 9,90
Ed. Garzanti
Trama
Anita
non ha ancora sedici anni. È sopravvissuta ad Auschwitz e alla brutalità
dei Nazisti. Quando viene liberata, ha solamente tredici anni ma, prima di
poter essere rimandata a casa, deve passare qualche tempo in un ospedale
gestito da americani.
Una
volta guarita, viene affidata ad Eli, il cognato della zia Monika da cui andrà
a stare, in una piccola cittadina cecoslovacca, abitata in precedenza dai
Sudeti.
Il
libro, in sostanza, narra la vita di Anita una volta fuori dal Campo,
nuovamente inserita nella società umanizzata che, però, non vuole né vedere né
sentire gli orrori che la poveretta ha vissuto insieme a molte altre persone,
chi ancora vivo e chi no.
Ci
racconta della famiglia in cui è inserita, in cui è costretta a vivere lavorando come baby sitter e donna di casa per una signora superficiale, Monika, sua zia, devota solo al denaro e alle apparenze,
che si vergogna delle proprie origini ebraiche, gelosa di tutto ciò che il
figlioletto, Roby, impara assieme ad Anita nei momenti in cui Monika stessa è
assente. Una madre possessiva, che cerca in tutti i modi di chiudere occhi e
orecchie, di vivere guardando solamente al futuro e rinnegando il presente,
nonché il passato.
Al
suo fianco, un marito fin troppo espansivo, disposto a prodigarsi per gli altri
che, però, non la soddisfa, perché spesso le rema contro e un cognato un po’…
libertino, che si approfitta di tutte le donne, senza sancire un legame
duraturo come il fidanzamento o il matrimonio.
Fatto
sta che Eli ingravida Anita, convinta di amarlo e, soprattutto, che i suoi
sentimenti siano ricambiati ma, si sa, all’epoca una gravidanza fuori dal
matrimonio era un biglietto di sola andata per la rovina più totale, perciò la
obbliga ad abortire.
L’ultima
parte del libro si concentra a Praga (mentre tutto il resto è ambientato in
Cecoslovacchia) dove Anita fugge da Eli, il cognato che l’ha messa incinta,
cercando di evitare l’aborto e di imbarcarsi verso la Palestina, la Terra
Promessa in cui tutti gli ebrei sognavano di trovare un po’ di pace e serenità.
Recensione
Ah,
ma che bel libro allegro, Sam!
Non
sono solita gettarmi in letture leggere, ma questo mammamia! Pesantissimo. E non per l’argomento
trattato, credetemi.
Ma
procediamo con ordine, sì? :3
Che
dire del libro.
Premetto
che la storia di fondo la conoscevo già, in quanto avevo visto il film qualche
giorno prima di iniziare la lettura e ho notato differenze abbastanza
importanti.
Un
esempio potrebbe essere quello dei personaggi: Anita va a lavorare in una
fabbrica tessile e, mentre nel film incontra un ragazzo di nome David, per cui comincia
a provare uno strano affetto – un sentimento molto vicino all’amore, nel libro
conosce Emma. Nel film la sua aiutante nella fuga da Praga è Sarah, mentre nel
libro è un soldato di nome Avner.
Non
so dire, sinceramente, cosa fosse peggio tra l’uno e l’altro.
Certo
è che la materia storica è stata un
po’ messa da parte, forse quasi banalizzata, dietro i continui
pensieri che Anita rivolgeva al trascorso nel Lager. Pensieri che riportavano
più o meno lo stesso contenuto, ridondanti e quasi estenuanti.
Ora:
io non voglio sminuire l’esperienza
del Campo di Sterminio di un sopravvissuto, ma qui è davvero, davvero
estremizzata, portata quasi alla stregua di una
lamentela continua e incessante.
Ho
letto molti altri libri, scritti da sopravvissuti che raccontano la loro
esperienza prima, durante e dopo la deportazione e, credetemi, niente a che
vedere con quello che ho trovato in questo libro.
Se non avessi
dato un’occhiata alle note sull’autrice, in fondo al libro, allora avrei pensato che avesse inventato tutto di
sana pianta, immaginando come possa essere, per un sopravvissuto, tornare a
vivere mentre ha perso tutto, famiglia, identità, onore e dignità, ridotto alla
stregua di – citando Primo Levi – un Muselmann,
di un morto che cammina e invece no; l’autrice ha vissuto questa esperienza in
prima persona e, da che ho letto, la riporta un po’ ovunque, nei suoi
libri.
Penso
che l’aspetto storico, oltre ad
essere, come ho già detto, estremizzato e banalizzato (questo, poi, è il mio
punto di vista, anche se sono consapevole che ognuno vive le esperienze a modo
proprio, diverso da quello di ogni altra persona al mondo) sia stato soppiantato dal subbuglio che Eli provoca nell’animo di Anita,
ragazzina alle prime armi con l’amore, che si aggrappa a lui come unica
certezza, come mezzo per ricominciare a vivere. Si fa troppe fisime inutili per
qualsiasi cosa e alle volte è anche esagerata. Poi capisco che sia solo una
ragazzina, ma continua ad apparire troppo esagerato, per me…
Parliamo
un po’ dei protagonisti, comunque, che in definitiva sono cinque.
Senza
dubbio, il personaggio che più ho apprezzato è stato Aron,
marito di Monika, l’unico che comunque ha
deciso di affrontare la realtà, a prescindere dalla sua crudeltà. Un
tizio coi piedi per terra, per intenderci, che fa di tutto per far sentire la
nipote a proprio agio, che cerca di aiutarla a districarsi nella nuova vita in
cui è costretta a giostrarsi. Simpatico, gentile, disponibile e orgoglioso
delle proprie origini ebraiche.
Tutto
il contrario della moglie, Monika, che è molto schiva, riservata e rancorosa,
diffidente e molto dedita alle apparenze che cerca in ogni modo di
salvaguardare. Come vi ho già detto, rinnega il presente e il passato, pensa
solo al futuro, ai propri interessi materiali e per questo risulta essere
superficiale e scontrosa, odiosa, quasi. Tratta Anita, la figlia di suo
fratello, come una schiava, praticamente, piuttosto che come una sua parente. La tiene a distanza a causa dell’esperienza che quest’ultima ha vissuto
ad Auschwitz, manco avesse contratto la Peste.
Poi
c’è Roby, il bambino di Monika e Aron. Non ha un ruolo attivo all’interno del
romanzo e nemmeno del film, eccezion fatta per la funzione di ascoltatore delle
avventure di Anita. Ella, infatti, gli racconta gli anni trascorsi con la
propria famiglia prima, durante e dopo
lo Sterminio di Massa organizzato da Hitler. Lo influenza così tanto, con i
suoi racconti, che nel film – e mi pare anche nel libro – la prima parola del
pargoletto è “Lager”. Un po’ triste, non trovate?
Infine Eli. Cognato di Anita, la prende in giro, facendole credere di essere innamorato di lei. La mette incinta e poi, per non avere problemi né a casa né con altre donne, la obbliga ad abortire, rifiutandosi di sposarla. È un uomo rude, infantile ed egoista. Come Monika, pensa al proprio bene, non a quello di chi lo circonda. È attaccato ai piaceri materiali, molto superficiale e decisamente pervertito.
Infine Eli. Cognato di Anita, la prende in giro, facendole credere di essere innamorato di lei. La mette incinta e poi, per non avere problemi né a casa né con altre donne, la obbliga ad abortire, rifiutandosi di sposarla. È un uomo rude, infantile ed egoista. Come Monika, pensa al proprio bene, non a quello di chi lo circonda. È attaccato ai piaceri materiali, molto superficiale e decisamente pervertito.
Eppure
Anita, una ragazzina nel pieno dell’adolescenza, se ne innamora. Se ne innamora
nonostante il suo rifiuto categorico di dirle “ti amo” almeno una volta; se ne
innamora nonostante lui abbia altre donne – lo sa, Anita, ma finge di essere l’unica
perché è più facile da sopportare – e nonostante lei sia consapevole di essere
nient’altro che un oggetto, un passatempo per lui. Nulla di più, nulla di meno.
Lei,
invece, è una ragazzina ingenua, petulante, che si appende ai ricordi
rifiutandosi di andare avanti; pare che sappia parlare solo di Lager e Lager e
ancora Lager. Ne parla con una facilità che rasenta la superficialità, più o
meno come tutta la storia e i suoi personaggi.
Da
questo deriva uno stile pesante, ripetitivo e abbastanza noioso. Ho fatto
veramente fatica ad arrivare alla fine; una sofferenza, dico sul serio.
Soprattutto
se le vicende sono condite con i suoi vaneggiamenti religiosi e sull’amore, un
amore platonico che nemmeno quello di Catullo per Lesbia…!
Una
cosa sola si salva, in questo romanzo, ed è una città.
La
parte che più ho apprezzato del libro è ambientata a Praga, città in cui ho
passato i cinque giorni più belli della mia vita e che ho amato nel profondo.
L’ho sentita mia, in un certo senso, ma solo di giorno. Forse eravamo nella
zona più triste o forse era questione di giorni settimanali e non del weekend,
ma la vita notturna non è decisamente il loro forte :”
Nel
libro, Anita la descrive così: «Praga sapeva un po’ di sogno, un po’ di favola
e un po’ di mistero in certi angoli, come se gli abitanti scomparsi
s’aggirassero ancora tra i vicoli. Oltre
le presenze reali c’era qualcosa di invisibile, il mitico Golem di cui parlava
la mamma, e si avvertiva la mano creativa dell’uomo sui palazzi, sulle casette
da mangiare, sugli abbaini alti come colombaie, sulle finestre come occhi delle
case» e penso che sia azzeccatissima. ♥~
Potete
immaginare quella città così vividamente che vi sembrerà di essere lì, tra i
suoi vicoli e i suoi negozietti adorabili.
Questo,
comunque, non è sufficiente per fargli prendere un 6/10.
Ultimo
appunto prima di tirare le conclusioni, riguarda il titolo: “Quanta stella c’è
nel cielo” non è un errore grammaticale o di stampa, bensì il verso di una ballata
di Petőfi, un grande poeta ungherese.
La
strofa da cui è presa, recita pressappoco così: Quanta goccia c'è nell'oceano? Quanta stella c'è nel cielo? Quanto capello sulla testa di un uomo? E
quanto male nel cuore?
Domande, queste, che senza dubbio fanno
riflettere parecchio.
Fateci un pensierino. ~
Decisamente, è stato il titolo ad attirarmi. Attirerebbe
chiunque, devo dire. xD è particolare e inusuale, quasi mai visto e sicuramente
incuriosisce il lettore.
Peccato che il titolo non valga il romanzo,
diciamo, giusto modificando un attimo il proverbio secondo cui “il gioco non
vale la candela”.
Voto:
4,5/10
Proprio
mi ha delusa, sì.
Mi
aspettavo troppo, forse.
Quote:
«Il mondo libero diurno o notturno dei bambini deve essere parente stretto
della felicità» perché comunque, nonostante tutto, questa è una grande verità.
Che dite, voi, di questo libro?
L’avete letto? Lo conoscete?
Che ne pensate?
Commentate e fateci sapere ♥
A presto! ♫
»Sam ♥
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